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Come allenare l'intelligenza artificiale (e la tua mente) secondo Stanford

Come allenare l'intelligenza artificiale (e la tua mente) secondo Stanford

Jeremy Utley spiega come trasformare l'intelligenza artificiale da semplice assistente a vero compagno di pensiero. Il segreto? Non è lei a dover diventare più intelligente, siamo noi a dover imparare ad allenarla

L’intelligenza artificiale non legge la nostra mente. La riflette.
Jeremy Utley lo ripete spesso ai suoi studenti di Stanford: l’AI non è un genio onnisciente, ma uno specchio che ci rimanda la qualità delle domande che le facciamo. Se vogliamo risposte migliori, dobbiamo imparare a guidarla, non a subirla.

Utley paragona l’AI a un tirocinante al primo giorno di lavoro: entusiasta, disponibile e sempre pronto a dire “sì”.
Il problema? Non sempre ha capito cosa vogliamo.
Per questo va allenata con contesto, istruzioni chiare e obiettivi precisi.
Più contesto forniamo, più i risultati diventano coerenti e utili. È ciò che Utley definisce “ingegneria del contesto”.

L’AI è ciò che tu le insegni a essere

Secondo Utley, l’intelligenza artificiale riflette il nostro atteggiamento mentale.
Se vogliamo usarla per pensare in modo più critico, dobbiamo dirglielo.
Possiamo scrivere, per esempio:

“Voglio restare un pensatore analitico, quindi aiutami a ragionare in modo più profondo e segnalami le incoerenze”.

In questo modo, il modello non si limita ad assecondarci, ma ci stimola a riflettere, a rivedere i nostri punti deboli, ad allenare il pensiero.
L’AI diventa così uno strumento di crescita cognitiva, non un semplice generatore di testo.

Dal giudice severo al compagno di pensiero

Utley scherza su un punto che molti sottovalutano: per ottenere feedback onesti, bisogna chiedere all’AI di comportarsi come un giudice severo, pronto a evidenziare ogni imperfezione.
L’AI, per sua natura, tende a compiacere. È programmata per essere gentile, ottimista, incoraggiante.
Ma se la invitiamo a essere esigente, a valutare con rigore, cambierà completamente registro.
Improvvisamente, il suo feedback diventa più realistico, preciso, utile.
Un po’ come avere un mentore digitale che non teme di dirti dove stai sbagliando.

Il trucco del “pensare ad alta voce”

Un’altra tecnica chiave è quella del think aloud, cioè chiedere all’AI di mostrare il suo ragionamento prima di dare la risposta finale.
È un modo per entrare nel suo processo logico: non ricevi solo il risultato, ma anche il percorso che l’ha generato.
Utley la considera una pratica essenziale per mantenere la mente vigile.
Se capiamo come la macchina ragiona, impariamo a ragionare meglio anche noi.

Reverse prompting: quando è l’AI a fare le domande

Utley suggerisce poi una mossa semplice ma potentissima:
chiedere all’AI di fare prima le domande necessarie, invece di rispondere subito.
È il principio del reverse prompting:

“Prima di rispondere, chiedimi tutto ciò che ti serve per farlo bene”.

In questo modo l'AI non inventa dati né interpreta male le istruzioni, ma diventa più accurata, più “umana” nel modo di lavorare.
Un approccio che riduce gli errori e aumenta la qualità complessiva del dialogo.

Il metodo delle tre finestre

Utley usa un sistema curioso per prepararsi a conversazioni complesse:

  1.  finestra per costruire il profilo della persona con cui dovrà parlare, 
  2. per simulare la conversazione, 
  3. per ricevere feedback su come è andata.

Lo definisce un simulatore di volo per la comunicazione. Ogni interazione diventa un’occasione per migliorare il modo di pensare, parlare e reagire.

L’AI non sostituisce la mente: la allena

Il messaggio finale di Jeremy Utley è chiaro:
l’intelligenza artificiale non serve a lavorare di meno, ma a pensare meglio.
Non è una scorciatoia, ma un acceleratore di consapevolezza.
Più impariamo a guidarla, più impariamo su noi stessi.

L’AI non è qui per sostituirci, ma per renderci più lucidi, più creativi e - paradossalmente - più umani.

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